Anno sociale 2020-2021

Le storie di vita raccontate in prima persona, le autobiografie, cambiano. Ciò che racconto di me, la vita che racconto essere stata la mia vita, cambia con me. Di fase in fase, di momento in momento, di stato emotivo in stato emotivo. Ma che cos’è che cambia da una narrazione all’altra? Il punto di vista? La «colorazione emotiva» di ciò che è avvenuto? L’interpretazione che do degli eventi che compongono la mia storia? La «selezione» dei ricordi? Oppure cambia «ciò che è realmente accaduto»? E che cos’è «ciò che è realmente accaduto»? Partendo da questa domanda inizieremo un viaggio attraverso i grandi temi della Psicologia e della Psicoterapia, intrecciati con i quesiti attorno a cui, da sempre, la filosofia si interroga: che cosa è «reale», che cosa «oggettivo», che cosa «vero». Ma questi temi verranno declinati, nel percorso che svolgeremo, sulla singolarità ed irriducibilità di «quella vita lì e nessun’altra».
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-> 1. La vita nella verità oggettiva, sperimentale ed autobiografica
Raccontare un’autobiografia significa anzitutto ricordare. Ma che cosa significa “ricordare”? E che cosa, propriamente, si ricorda? Qualsiasi racconto è, anzitutto, l’esito degli strumenti che si adottano per conoscere il proprio passato. Uno sguardo naturalistico ed oggettivante produrrà “verità” universali ed assolute, uno sguardo sperimentale costruirà oggetti “da laboratorio”, ma come si può avvicinare la storia di un soggetto biografico? E che cos’è un soggetto biografico? Se la conoscenza è un evento relazionale, il soggetto conoscente è il punto di partenza e, contemporaneamente, di arrivo di qualsiasi sapere. Da questa consapevolezza è opportuno prendere dunque avvio per capire che cos’è un’autobiografia.
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-> 2. Come nasce un’emozione e di che cosa “è fatta”
Secondo il sapere naturalistico esistono due tipi di emozioni: primarie (assolute, a-storiche, universali e trans-culturali) e secondarie (più direttamente legate al contesto storico-sociale). Ma un’esperienza emotiva che prende corpo in un individuo è sempre e comunque “fatta” di una serie di “abiti condivisi” e della parole di tutti e di ciascuno attraverso cui è possibile raccontarla. Tanto l’accidia (emozione secondaria) quanto la paura (emozione primaria) – che usiamo come esempi – non possono prescindere da contesto in cui emergono e dalla singola vita in cui “si incarnano”. Qualsiasi emozione è l’“incarnazione” personale e individuale di un fare e di un nominare collettivo.
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-> 3. Il soggetto psicologico e la sua “guarigione”
Il sapere disciplinare psicologico, tanto nella clinica quanto nella ricerca, segue il modello naturalistico di un’oggettivazione assoluta dei propri contenuti. Eppure le ricerche longitudinali sull’efficacia della psicoterapia ci dicono che per spiegare ciò che accade ad un individuo non si può che passare dal suo vissuto e calarsi in esso a partire dal racconto che egli dà di sé. Né le categorie psicodiagnostiche universalistiche, utilizzate dal DSM, né la riduzione del fenomenico al fisico, operata dalle neuroscienze, ci aiutano ad entrare in contatto con l’esperienza umana.
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-> 4. Qual è la “verità” di una storia di vita?
Se “il mondo si costruisce relazionalmente”, nel fare di tutti e di ciascuno, e “tutto accade nel linguaggio”, in una narrazione di sé e degli altri – come abbiamo cercato di dire – è l’indagine dell’unicità e della soggettività del vissuto individuale la via per articolare una storia di vita. Lì è possibile costruire anche uno spazio “terapeutico”, basato sull’ascolto e sull’assenza di giudizio, in cui scrivere un racconto della propria vita che possa produrre maggior benessere, nella misura in cui integra le diverse parti di sè.